Acarajé senza saudade (di gamberi e pescetti!)… Non c’è due senza tre, e così per il momento concludo la serie dei travestimenti ittici iniziata con le vongole felici (http://www.veganblog.it/2009/07/09/spaghetti-alle-vongole-felici/) e proseguita con lo scoglio libero (http://www.veganblog.it/2009/08/08/linguine-allo-scoglio-libero/).
Il titolo della ricetta ha ben due nomi su tre intraducibili… Così prendo un po’ in giro la mia ‘parte traduttrice’ che si piglia tanto di quel tempo che invece dedicherei volentieri a questi ed altri manicaretti (molti dei quali scopiazzati da voi, siete una vera miniera di idee!).
La saudade, come molti sapranno – ma non tutti come mi sto accorgendo in queste giornate ‘preparatorie’ – è una specie di malattia dell’anima tipica dell’ispirazione artistica e musicale brasiliana, una specie di malinconia mista a inquietudine, ma molto altro ancora (appunto, si tratta di nome intraducibile!).
Scherzosamente ho voluto quindi veganizzare una delle pochissime specialità di pesce che anche da vegetariana hanno esercitato su di me un grande fascino sensoriale e letterario… Dopo il viaggio in Brasile, e in particolare a Salvador de Bahia, e dopo aver letto i romanzi di Jorge Amado (in particolare Dona Flor e i suoi due mariti) l’acarajé è rimasto nel mio cuore… purtroppo insieme a qualche povero gamberetto malcapitato… Comunque ne ho mangiato uno solo in tutto il soggiorno, quello mitico di Cira a Itapoa! Faccio tardiva ammenda e per scusarmi con i poveri animaletti ho pensato di realizzare una versione ‘senza saudade’ – cioè senza la tristezza e la fatalistica malinconia del gambero che silenziosamente da secoli si offre ai nostri palati…
Cucinare è anche un modo molto ecologico di viaggiare! Ci si può trasferire da un punto all’altro del globo con qualche piccola alchimia tra i fornelli… Negli ultimi anni, sia per ragioni economiche che di tempo, i miei viaggi si sono sempre più ridotti di raggio, ma la possibilità di riprodurre i sapori con una qualche verosimiglianza mi fa restare comunque in contatto con tante terre lontane, visitate e non. Certo, essere stati sul posto è un’altra cosa… la magia delle venditrici di questo magnifico street food tropicale è irriproducibile. Le bahiane vestite tutte di bianco, con abiti lunghi, vaporosi e merlettati sono davvero visioni celestiali dietro fumosi fornelletti e microscopici baracchini… L’eleganza e cerimonialità dell’abbigliamento non è casuale. Quello che vendono è cibo sacro, prescritto dal rituale di uno degli orixà del candomblé, e cioè Oya Yansà, signora del vento e della tempesta – assimilata a santa Barbara (le divinità africane sono state sincretizzate con i santi cattolici).
Sicuramente queste sacerdotesse della cucina stradale arriccerebbero il naso di fronte al mio maldestro tentativo. Chiedo umilmente scusa a Oya-Yansà, ma si sa che anche le divinità e i santi si aggiornano nel corso del tempo… per cui oggi credo che apprezzerebbero un bel piattino vegan sui loro altari!
L’acarajé è una polpetta di crema di fagioli fritta che viene spaccata e condita con varie cose. Secondo alcuni il modo classico bahiano prevede vatapà, caruru, insalata e molho de pimenta, cioè le prime due degli intingoli con pesce e gamberetti e l’ultimo una salsetta che in comune hanno l’essere tremendamente piccanti (etimologicamente significa ‘mangiare fuoco’ …). Per cui la ricetta va scomposta in varie fasi, a seconda di quello che si vuole mettere nell’acarajé. Io finora ho realizzato due versioni, una invernale molto modesta con uno stufato di puntarelle (quelle fatte a striscioline e messe a bagno che diventano spirali), zucca intagliata a spirale e ‘carapaci’ dei fagioli che non ho buttato – in questo caso ho improvvisato buttando in padella zenzero, comino, alloro, peperoncino e poi il pomodoro con le verdure. Con la versione estiva mi sono documentata meglio sulle ricette degli intingoli di cui sopra e ho provato a farne delle versioni vegan. Ma cominciamo con l’acarajé, cioè la polpetta regina del piatto.
Acarajé (già vegan per natura)
Ingredienti
200 g di fagioli con l’occhio (li ho trovati facilmente a piazza Vittorio, a Roma – altrimenti si possono sostituire con cannellini)
1 cipolla
coriandolo o menta freschi
1 striscia di alga kombu
Questa è la ricetta che ho trovato più spesso in Internet a cui ho aggiunto la variante dell’alga. Apparentemente facilissimo, ma il problema è dato dalla sbucciatura dei fagioli, che prima di essere frullati vanno privati della pellicina. Secondo alcuni i fagioli vanno frullati grossolanamente prima di essere messi a bagno, in modo che le pellicine si stacchino da sole e vengano a galla, ma non dispongo dello strumento. Ho quindi ibridato questo consiglio con un altro che suggerisce di fare un’incisione con il coltello: ho tagliato i fagioli in due metà ad uno ad uno. Un lavoro atroce che non consiglio a nessuno: mi ha lasciato per mesi l’articolazione dell’indice destro infiammata. Nel secondo caso quindi, col senno di poi, ho messo a bagno i fagioli e li ho spellati con facilità, sempre però ad uno ad uno… una noia! Sarei curiosa di sapere come fanno le bahiane che non hanno come me il frullatore… eh sì che la ricetta dev’essere nata in tempi in cui questo arnese non doveva essere in circolazione…
Quindi i 200 g di fagioli, in apparenza pochi, in realtà sono veramente tanti quando li spellate uno per uno (e i fagioli con l’occhio sono sadicamente minuscoli…).
Comunque, una volta faticosamente prodotta la ciotola di fagioli nudi risciacquare e rimettere a bagno con l’alga kombu per un tempo a piacere, secondo come fate di solito o secondo le istruzioni sulla confezione. Poi frullare con il minipimer (questo per fortuna ce l’ho! Ma soltanto da un anno, in passato ho sempre fatto senza… ora non capisco nemmeno come è stato possibile vivere senza vellutate e creme di semi varie…), e quando si ottiene una soffice pasta bianca unire la cipolla tritata e le erbette a disposizione. Io ho messo delle capsule di coriandolo pestate nel mortaio e delle foglie di menta del mio vaso. L’alga invece lasciatela da parte per il caruru.
Amalgamare bene tutto, salare e far riposare un poco, magari aggiungendo della farina (se ce l’avete, di manioca) se la consistenza vi sembra troppo liquida.
Quindi si passa alla frittura. Se vi fate un giro in internet vedrete dal vivo molte bahiane do acarajé che rollano sui cucchiai le pastelle prima di tuffarle nell’olio e sono magistrali! Io me la sono cavata facendole un po’ piccole, così produrrò più possibilità di assaggio vista la fatica intrapresa… Ma si può anche fare delle belle polpettone, con cui è più semplice assemblare lo street food.
Ho fatto delle monofritture per non sprecare una barca di prezioso olio evo sabino! E poi ne ho fritti solo due a testa, quindi quattro, il resto della pastella la porto domani con le salse da amici dove friggerò live!
Prima di friggere gli acarajé dovete decidere con cosa farcire. Sopra vi ho descritto il semplice intingolo che ho fatto quest’inverno (semplice per modo di dire – per fortuna che era Capodanno e quindi ho potuto indugiare un po’ di più in cucina).
Ora vi propongo invece la versione estiva, comprendente vatapà – un intingolo pomodoroso e pannoso con pesce e gamberetti che ho veganizzato utilizzando le zucchine e i loro fiori, caruru – uno stufato con gamberetti e gumbo (verdura che le ricette propongono di sostituire con le zucchine, ma avendole già usate per il vatapà ho optato per un peperone gialloverde), insalata (ho fatto un mix di canasta e indivia con cetrioli e cipolla rossa, condita semplicemente con olio, salsa di soia e limone) e molho de pimenta, una salsina piccante.
Eccovi le veganizzazioni collaterali.
Vatapà vegan
Sono partita come base dalla ricetta che ho trovato nel sito di RCM – Rete Civica Milano, proposta da Elena Barusco. Non riporto la lista degli ingredienti onnivora dell’originale che qui sarebbe anche fuori luogo e passo a quella modificata. Ho dimezzato le dosi, che mi parevano ciclopiche.
Ingredienti
250 g di zucchine e relativi fiori annessi
un pezzetto di kombu (va bene quella usata per l’ammollo dei fagioli)
1/2 cipolla tritata
1 spicchio d’aglio a fette
½ cucchiaio di zenzero fresco grattugiato
2 piccoli peperoncini Jalapeno (ho usato quelli di una piantina di peperoncini verdi che stanno ormai diventando rossi, non credo che fossero quelli richiesti ma hanno funzionato)
8-10 pomodorini (o due pomodori grandi)
succo di 1 lime (io ho usato un limone di Sorrento)
un cucchiaio di alga nori spezzettata (al posto dei gamberetti secchi)
due cucchiai di arachidi tritate (ma nell’originale chiedono il burro)
1 tazza di brodo vegetale
1 tazza di latte di cocco
un ciuffo di coriandolo fresco tritato (io ho usato il prezzemolo)
sale a piacere
1 goccia di tabasco
olio evo q.b. (a sostituire l’olio di dende, ovvero di palma, ecologicamente scorretto)
(Nel caso in cui volete servire questo intingolo come piatto a se stante potete guarnire con foglie di coriandolo e fette di lime – oppure prezzemolo e fette di limone)
A proposito del tabasco, una piccola digressione. Non rientra fra i condimenti che uso e comprarne un flacone per usarne una goccia mi pareva assurdo, così ho messo un cucchiaino della salsa di tamarindo e peperocino indiana che mi è stata donata al Kabir fast food nei pressi di piazza Vittorio, dove ho fatto una graditissima sosta prima dello shopping dei prodotti esotici che mi servivano per questa e altre ricette in programma. Il locale è in via Mamiani 11, il cibo è divino e i prezzi leggeri, e c’è una bella scelta vegan (ma il locale purtroppo è onnivoro). Attenzione alla salsa con peperoncino verde e yogurth, che ho versato soprappensiero non considerando che non è yogurth di soya… i cui resti sto ormai consumando a casa…
Procedimento
In un tegame scaldate l’olio a fuoco medio. Unite cipolle, aglio, zenzero e peperoncini. Cuocere 10 minuti mescolando fino a che le verdure non sono ammorbidite.
Aggiungete i pomodori, il succo di lime o limone, l’alga nori, le arachidi (il burro o il trito), e continuate a mescolare per un minuto. Versare un po’ alla volta il brodo vegetale, un quarto di tazza alla volta, mescolando continuamente per mantenere il tutto morbido. Poi unite latte, coriandolo (qui ho messo proprio il coriandolo, ma in capsule pestate al mortaio – preferisco non cuocere il prezzemolo) e la goccia di tabasco (sostituita con un cucchiaino di salsa al tamarindo e peperoncino indiana).
In una padella mettere un filo d’olio e le zucchine alla julienne (forse sarebbe stato meglio sbucciarle per ‘sbiancarle’ – ma ci ho pensato troppo tardi) in un solo strato (non stile minestra quindi). Appena iniziano a friggere versare la salsa già preparata e portare a ebollizione. Far cuocere otto minuti (se avete passato prima le zucchine a vapore, altrimenti cuocete anche 15-20 minuti) aggiungendo i loro fiori sfilettati e la kombu due minuti prima di spegnere.
Se lo servite come piatto a sé spremete del lime o del limone e guarnite con coriandolo o prezzemolo freschi.
Effettivamente il piatto è già gustoso di per sé e si può mangiare accompagnato da riso o altri cereali.
Ecco il risultato!
Caruru vegan
La ricetta onnivora a cui mi sono ispirata per la veganizzazione è quella di Mangiarebene.com. Segue la mia versione veganizzata e con quantità ridotte (va bene per condire i dieci-dodici acarajé di taglia piccola che vengono con le dosi segnalate sopra).
Ingredienti
200 g di cipolline e 100 g di anacardi per sostituire i gamberi
curcuma e paprika (per speziare le cipolline)
mezzo peperone giallo-verde
‘carapaci’ dei fagioli messi in ammollo
un cucchiaio di alghe nori tritato per sostituire i gamberetti secchi
1 cucchiaio di farina di manioca (o altra se non l’avete)
125 dl di latte di cocco
2 cucchiai di arachidi tritate
un po’ di prezzemolo tritato (o coriandolo)
olio evo sabino (è quello che uso, ma va bene ogni olio evo o anche altro olio che di solito si usa per frittura)
½ cipolla tritata
5-6 pomodorini maturi
mezzo peperoncino verde tritato (o uno piccolo)
Procedimento
Qui si dovrebbe iniziare a saltare i gamberetti nell’olio, ma noi abbiamo delle dure cipolline… e allora le ho prima passate un paio di minuti al vapore e poi le ho messe in un tegamino con due dita di acqua in cui sono stati i fagioli a bagno con l’alga kombu (non era la prima acqua, avevo risciacquato dopo aver tolto le pellicine e poi rimesso a bagno con l’alga), aggiungendo un pomodorino, un po’ di paprika e di curcuma e l’alga kombu a strisce. Stufare un pochettino e spegnere, nel frattempo preparare una padella con un filo d’olio e friggere le cipolline un paio di minuti. Dopodiché lasciatele da parte mescolando agli anacardi (sentirete un odorino quasi da gambero…).
Se trovate delle cipolline piccole e rosse sarebbero l’ideale, altrimenti si potrebbe provare a stufare con un po’ di rapa rossa per rendere le cipolle rosee: purtroppo stavolta non l’avevo a portata di mano…
Nella padella riscaldata aggiungete un cucchiaio d’olio e versare la cipolla tritata finemente, appassirla per cinque minuti a fuoco basso finché è trasparente. Aggiungere quindi peperoncino verde, pomodorini, peperone, carapaci dei fagioli messi in ammollo per l’acarajé e alga nori. Unite la farina di manioca e il latte di cocco in una scodellina amalgamandoli bene, e versare poi in padella continuando a mescolare. Abbassare la fiamma e far stufare mezz’ora. Man mano ci ho aggiunto l’acqua di marinatura della kombu e un po’ di acqua di cottura delle zucchine che mi era rimasta. Passato questo tempo riversare le cipolline-gamberetto in padella e far cuocere cinque minuti girando di tanto in tanto. Alla fine aggiungere olio evo a crudo, prezzemolo (o coriandolo fresco se l’avete) e noccioline tritate, aggiustando di sale. Normalmente questo intingolo va servito sul riso.
Molho de pimenta e limao
Ingredienti
2 peperoncini verdi
½ cipolla finemente tritata
una punta d’aglio in polvere
mezzo limone spremuto
Procedimento
Tritate tutto e fate marinare almeno quattro ore in frigo prima di servire.
Dunque, ora avete tutti i componenti: spaccate in due l’acarajé (io li ho fatti piccolini, potendoli mangiare sul piatto, ma come street food andrebbero fatti più grandi e compattati con più farina di manioca…) e buttateci dentro vatapà vegan, caruru vegan, insalata e molho de pimenta e limao. Io ci ho messo anche una goccia delle salsine portate dal fast food indiano e ho accompagnato il tutto con un avanzo di friggitelli fritti del giorno prima (tanto per restare sul leggero…). A Bahia invece la succulenta polpettona ve la poggiano su un quadratino di carta, calda calda, con tutti gli intingoli e robe varie che scappano fuori (il Brasile in cucina ha un culto della generosità debordante…).
Beh, devo dire che il risultato pur non conforme all’originale (e attendo magari qualche utile suggerimento da brasiliani veg se ce ne sono!) è stato di una bontà sublime…
E per finire ecco accontentata Betti che voleva vedere meglio il mio tavolo(qui nella fase di esecuzione del caruru)!
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Renata Balducci, presidente di Associazione Vegani Italiani e fondatrice di Veganblog
e ci credo che è stato di una bontà sublime… sono qui che sbavazzo a veder el efoto ed è da poco passata la mezzanotte!!!
una ricettazza alla volta ma questo post me lo riproduco nelle prossime settimane!!!
Caspita Mariagrazia…a te di certo la fantasia non manca…ogni volta riesci a stupirci con effetti speciali…Sei Grande!!! ^_^
Tu vuoi farci morire….mamma mia, mi sembra di sentire il profumo….
Ciao Mariagrazia fantastica spiegazione, belle foto e che dire della ricetta strepitosa!
Oddio vedendo il piatto finale non saprei proprio dove mettere le mani per cominciare l’assaggio…………semplicemente fantastico, sei veramente una donna con una fantasia eccezzionale…..peccato che anche tu sei un po’ lontana altrimenti si combinava altro che cena vegan…….facevamo un banchetto vegan 😉
questa ricetta piacerebbe anche alla mia amica del cuore Fer, di cui ho tanta tanta saudade… appena la vedo (siccome vive a caxias in brasile, ci tocca incontrarci in giro per il mondo di tanto in tanto) le preparo questa delizia e da brava brasiliana mi darà il suo giudizio… sicuramente super positivo!
tantissime grazie per averci dedicato questo lungo tempo nella descrizione che ci hai fatto!!!
e complimenti per la tua pazienza e creatività.
Grazie a tutte!
@ Chicca
carina l’idea del banchetto vegan! Però è anche vero che c’è un po’ di distanza e ultimamente mi muovo molto poco. Ma non poniamo limiti alla provvidenza!
@ Nicole
attendo i commenti della tua amica Fer! Io ho un’amica italiana che ha fatto il dottorato in Brasile (una tesi proprio su Oya-Yansà!) ma purtroppo abita a Milano… altrimenti le avrei chiesto di assaggiare per avere il suo parere! Ma prima o poi capiterà che ci vedremo e speriamo di avere il tempo di mettere su lo “spettacolo”…
Uuuuhssssignuuuuuuuuuuuuurrrrrrrrrr…
Che lavoro Mariagrazia, complimenti !!!
(Io mi sarei fermata a preparare gli acarajé e basta lì, neeeeeeeeeh…!)
beh, ma se li fai una volta l’anno vale la pena metterci anche il ripieno! e poi considera che li ho mangiati per tre giorni, il primo con Stefano, il secondo ho fatto il vassoio di miniacarajé per gli amici e il terzo con le salse avanzate ho condito il riso integrale (buono anche quello!).
belli, variopinti…quasi sexi….da provare, ma non credo di riuscire a reperire gli ingredienti a venafro. una gitarella fuori porta mi permetterà di acquistare qualcosa…comunque le proverò. un abbraccio. virginia
…intanto grazie per aver pensato a me…le foto ritraggono ricette colorate e gustose..quasi sexi, ma non sono sicura di riuscire a reperire la”materia prima”. nei centri piccoli è un problema, ma una gitarella fuori porta dovrebbe risolvermi l’impasse….le proverò. intanto ..un saluto ed un abbracci. virginia
@ Virginia
carissima, sono felice di averti fatto venire voglia di provare gli acarajé! Hai anche notato un aspetto che avevo lasciato un po’ in ombra, cioè la notevole componente afrodisiaca!
In effetti i riti del candomblé in cui questi cibi sono componente strutturale sono in sostanza celebrazioni dell’energia vitale, l’axé. L’orixà si incorpora nei ballerini che sono suoi figli e quindi gusta direttamente il piatto attraverso loro.
Devo dire che nei giorni in cui mi sono dedicata agli acarajé mi sono sentita davvero ricaricata… non so se c’è stato lo zampino di Oya-Jansà ma ho ritirato pure fuori i vestiti acquistati in Brasile che di solito stanno chiusi nell’armadio!
A proposito, penso che dovrei inserire questo piatto anche nella sezione San Valentino!
Fammi sapere se sono stati di tuo gradimento!
Come compagno di vita e avendo il grande piacere di assaggiare in anteprima i piatti di Mariagrazia, posso garantire che questo acarajé sem saudade, gustato ascoltando musica brasiliana in una calda notte estiva, è stata una esperienza tanto gustosa quanto memorabile !
Non vedo l’ora di fare di nuovo da assaggiatore per il prossimo piatto…
Stefano
Mamma mia! un lavoro immane… ma se il risultato è buono credo che ne valga la pena 🙂
Carissime/i io ho mangiato le saudate di Mariagrazia, sublimi è dire poco i contorni spettacolari. Gusto, odori, sapori si incontrano con la passione e la grazia di questo piatto trascinandoci in un viaggio brasialiano. Le consiglio a tutti. Mariagrazia sei grande.
scusate il ritardo nel rispondere ma un salto di tensione mi ha messo fuori uso il pc e ora vi scrivo dal portatile di Stefano anch’esso appena recuperato da una riparazione…
@ Stefano
Il prossimo progetto di viaggio culinario è in allestimento, come avrai notato! Ancora qualche giorno di pazienza!
@ Nadir
sì un lavoro immane ma creativo alimentato dalla passione, quindi un bel gioco che si fa con piacere! E’ ovvio che una cosa del genere non si fa tutti i giorni, è come andare fuori per un weekend senza muoversi da casa…
@ Pina
Grazie, sono davvero felice che abbiate gradito! E grazie ancora per la magnifica ospitalità della mia cucina in trasferta!
Tutto perfetto e invitante, c’è solo un dubbio che mi è sorto nel vedere l’elenco dei prodotti alternativi…la mia anima ambientalista ha avuto qualche sussulto e spiego il perché: i prodotti ‘esotici’ contemplati presuppongono importazioni da Paesi lontani, conseguentemente comportano notevoli emissioni di inquinanti dovuti sia al traffico aereo che da quello su gomma. Penso quindi all’impatto ambientale provocato anche dall’ incentivare questo tipo di consumi. Penso che l’emergenza ambientale sia la sfida del prossimo futuro e anche una ‘goccia’ fa la sua parte. Oggi si va diffondendo, anche se lentamente, il principio “Spesa a Km. 0”; quindi ok per la cucina Vegan ma, vista la tua bravura, potresti pensare alle sostituzioni in funzione anche di questo principio?
Con gratitudine, Francesca S.
p.s.
(Sono del parere che dovresti pubblicare un bel libro corredato da foto, con le tue magnifiche creazioni…)
@ Francesca S.
Sì, hai ragione – la cucina vegan dovrebbe senz’altro essere a km zero il più possibile!
Io sto cercando di sostituire nelle mie ricette già pubblicate i prodotti importati da troppo lontano, magari prossimamente (in un futuro non troppo vicino, perché ormai si torna al lavoro) posterò delle versioni riviste e corrette in tal senso.
Per lo scoglio libero praticamente penso di aver risolto sostituendo i cuori di palma con anelli di semola oppure anelli di cipolla impanati e fritti. Per gli acarajé si vedrà… ma non credo che la sua difficoltà incoraggi una sua riproduzione in massa… resterà una cosa da fare una tantum (o addirittura una volta nella vita…). E secondo me qualche eccezione ogni tanto ce la possiamo concedere, no? (purché sia tale).
Ti ringrazio della fiducia che riponi in me e nelle mie ricette! come ho già detto a qualcuno nel blog, per il momento mi accontento del grande onore di pubblicare fra questi distinti chef vegan!
😉
Sono stata chiamata in causa!!! Per menonvegan, ma conoscitrice di Bahia e dei suoi cibi sacri perché legata all’orixa Oya-Iansa. Visivamente l’acarajé di Mariagrazie èbellissimo e sicuramente buono, credo che però sia diverso da quello di Cira di Itapoa o di Rio Vermelho. Cmq gli orixa apprezzeranno lo stesso, infatti la misceladi colore, forma e ingredienti c’è e per loro valeanche l’energia positiva che ci si mette nel cucinare e questa senza dubbio laMari c’èl’ha messa!!!
Quasi quasi ci provo anch’io e supero la mia pigrizia!!
@ Susanita!!!
stavo proprio aspettando il tuo “responso”! Grazie, certo questi simil-acarajé non sono la stessa magnifica cosa di Cira, però la prossima volta che ti capita di essere a Bahia prova a chiedere se stanno pensando a una salsa in versione vegan! e poi mi passi la ricetta!
Beh sono contenta di invogliarti a metterti ai fornelli! e mi inchino ai benevoli orixà sperando che chiudano un occhio!
Se possibile chiedi alle bahiane anche come fanno a spellare i fagioli se non hanno il frullatore! Non credo che si mettano come me a pulirli uno per uno…
questa me l’ero persa! Mariagrazia, che pazienza, e che meraviglia ancora una volta! Non sono mai stata a Bahia, ma ho letto tanto Amado e mi posso quasi immaginare i profumi di questi piattini!
@ Cri
e ci credo qui è un profluvio di tentazioni no-stop!!!!
Pensa che a Bahia sono stata alla Scuola di cucina nata in omaggio a “Dona Flor”! A prezzo fisso si poteva passare e servirsi a piacere lungo un tavolo in cui erano esposte le più mirabolanti creazioni culinarie! ovviamente onnivore… ora sogno un analogo posto vegan!!! (beh, Veganblog lo è in senso virtuale)
Mariagrazia,
tutte le bahiane hanno il frullatore!! E’ un’istituzione negli utensili della cucina!!
Non ho mai visto nessuno farlo a mano!
Ciao
Susanna
@ Susanna
e così mi consigli di cedere al progresso e procurarmi un frullatore! Vabbè prima o poi lo farò. Resto comunque incuriosita da come se la cavassero le bahiane prima dell’avvento del frullatore… si potrebbe fare una ricerchina storica?
😉
Io e mia figlia Sofia solo a leggerlo stavamo sbavando!! Però SANTA PAZIENZA! Ma quanto hai lavorato??? Bellissimi, sicuramente profumatissimi che si sente l’odore fuori dal portone.. Li assaggeremmo molto volentieri, anche a mezzanotte passata!
Mi piacerebbe vederti cucinare! A presto 🙂
@ Simona G
Beh, per me questo genere di lavoro è un divertimento… sempre che posso fare tutto con calma e con i miei tempi (un po’ lunghetti)…
Spero di poter esaudire il tuo desiderio!
😉